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Per la prima volta da quando all’Africa è assegnato più di un posto tra le partecipanti al Mondiale, tutte le nazionali africane qualificate sono allenate da tecnici originari del continente. C’è di più: ognuno di questi allenatori siede sulla panchina della nazionale del proprio paese di origine o del paese di origine dei propri genitori.
Aliou Cissé, nato a Ziguinchor, allena il Senegal.
Jalel Kadri, nato a Tozeur, allena la Tunisia.
Rigobert Song, nato a Nkenglicock, allena il Camerun e sarà il primo camerunese a guidare i Leoni Indomabili in una Coppa del Mondo.
Otto Addo, nato in Germania da genitori ghanesi, allena il Ghana.
Walid Regragui, nato in Francia da genitori marocchini, allena il Marocco.
Questo dato potrebbe sfuggire agli occhi di molte persone in Italia, un paese che non vede un allenatore straniero sulla panchina della propria nazionale dal 1967, quando l’argentino Helenio Herrera smise di affiancare Ferruccio Valcareggi. La federcalcio italiana, infatti, ha sempre considerato i propri allenatori in grado di guidare gli Azzurri e portarli al successo. Non si può dire altrettanto per la maggior parte delle federazioni africane, troppo spesso attente più alla provenienza e alla carriera da calciatore che all’effettiva competenza dell’allenatore. Molti europei e qualche sudamericano sfruttano valutazioni approssimative delle dirigenze africane per intraprendere percorsi da veri e propri globetrotter nel continente. E non è un caso che le nazionali che quest’anno parteciperanno al Mondiale abbiano condiviso diversi allenatori nel corso della loro storia.
Uno degli esempi più emblematici è quello di Henri Michel, campione del grande Nantes del ventesimo secolo, che dal 1994 al 2012 ha cambiato ben dodici panchine africane tra club e nazionali. Michel è stato chiamato dal Camerun esclusivamente per guidare i Leoni Indomabili al Mondiale del 1994 e poi allontanato dopo l’eliminazione al primo turno; ha allenato il Marocco per cinque anni dal 1995 al 2000 ottenendo una qualificazione ai Mondiali del 1998; ha preso le redini della Tunisia nel 2001 facendosi poi licenziare dopo la Coppa d’Africa dell'anno successivo a causa di un’uscita prematura nella fase a gironi condita da zero gol all’attivo; è tornato sulla panchina del Marocco alla vigilia della Coppa d’Africa 2008 per poi essere sostituito per l’ennesima eliminazione precoce. In 18 anni di carriera in Africa, Michel ha raccolto una qualificazione ai Mondiali. Per quanto sia stato un risultato eccezionale, appare decisamente poco per essersi meritato anche la fiducia a più riprese di club prestigiosi come Zamalek, Raja di Casablanca e Mamelodi Sundowns.
Ciò non significa, naturalmente, che un allenatore non africano non possa o non debba allenare in Africa. Di esempi vincenti, per risultati e lascito calcistico, ce ne sono diversi. Ultimo, in ordine cronologico, quello del francese Hervé Renard che ha vinto la Coppa d’Africa con Zambia e Costa d’Avorio, rispettivamente nel 2012 e nel 2015, e riportato il Marocco ai Mondiali dopo vent'anni nel 2018.
Il punto è un altro: perché i colleghi africani, in particolare quelli dell’Africa subsahariana, non sono o non vengono considerati alla pari?
Gli ostacoli del colonialismo
Partiamo dalla storia e facciamo un doveroso salto indietro nel tempo. Torniamo agli albori del calcio, così come lo conosciamo nell’età contemporanea.
Come riportano Tado Oumarou e Pierre Chazaud in “Calcio, religione e politica in Africa”, benché il calcio, portato dagli europei durante l’epoca coloniale, fosse diventato ben presto l’attività sportiva preponderante delle popolazioni africane, era inizialmente uno svago appannaggio di poche e ristrette élite occidentali. Le autorità coloniali imponevano ostacoli burocratici alla costituzione di società locali e le escludevano dall'utilizzo delle strutture migliori. Temevano che il calcio potesse fungere, come poi accadrà in molti paesi, da canale di diffusione del sentimento anti-coloniale e di affermazione delle identità nazionali africane. Il timore era talmente elevato che le suddette autorità vietavano la disputa di amichevoli tra squadre locali e quelle rappresentanti le comunità europee per evitare di rimettere in discussione l’ordine stabilito tra dominati e dominatori in caso di successo delle formazioni autoctone.
L’imposizione di questi ostacoli, unita alla carenza di infrastrutture adeguate e l'effettiva segregazione razziale in atto anche in ambito sportivo, ha chiaramente ridotto le opportunità delle popolazioni africane di sviluppare i propri movimenti calcistici nella prima metà del secolo scorso, rallentando di circa cinquant’anni anche la crescita degli allenatori.
Il razzismo e i suoi strascichi
A proposito di razzismo, se i dirigenti africani hanno per decenni concesso meno possibilità agli allenatori locali lo si deve anche al complesso di inferiorità inculcato da schiavisti e colonizzatori nelle menti delle popolazioni sottomesse di cui ancora la gran parte del continente soffre. E per risalire alle origini di questo complesso è necessario fare un ulteriore tuffo nel passato.
Come ricordava il compianto Mauro Valeri in “Afrofobia”, a partire dalla conquista delle Americhe e dal conseguente inizio della tratta degli schiavi nel 1500, i bianchi hanno categorizzato il nero come essere inferiore, deumanizzandolo per esigenze di dominio, principalmente economico e sociale. Per riuscire nell’intento, i padroni ricorrevano spesso anche alla violenza psicologica, infondendo nello schiavo il disprezzo di sé e la convinzione che non potesse aspirare a una vita migliore. Le conseguenze di secoli di torture psicologiche non hanno risparmiato il settore calcistico. I tecnici africani sono spesso scartati perché i loro stessi connazionali giudicano le loro capacità non paragonabili a quelle di un collega occidentale, che si è formato in scuole a cui gli africani non hanno avuto accesso e ha fatto esperienze che agli africani sono state spesso precluse. Gli allenatori africani non sono all'altezza del compito di elevare il livello delle squadre e dei campionati locali e il calcio africano è implicitamente degradato a calcio primitivo in cui le abilità superiori degli europei possono prosperare e trovar fortuna.
Va da sé che questa visione discriminatoria influenza ancora oggi anche l’analisi che in Europa si fa dei calciatori africani. Molto spesso si esaltano le loro qualità fisiche e atletiche, a volte quelle tecniche, molto meno quelle tattiche e intellettive. Nel 2020 una società di ricerca danese, Run Repeat, ha rivelato che è sei volte più probabile che giornalisti e commentatori stiano descrivendo un giocatore di carnagione più scura quando parlano di potenza, mentre i giocatori di carnagione più chiara sono regolarmente elogiati per la loro intelligenza ed etica del lavoro.
La stereotipizzazione del calciatore africano si estende naturalmente anche agli allenatori che, come accade in Africa, sono ritenuti meno preparati. La chiusura di molte porte agli allenatori africani causa una pressoché totale mancanza di rappresentatività nel calcio più seguito e sviluppato del mondo, vale a dire quello europeo. L'unico che, dando possibilità a tutti, può garantire la circolazione di idee e conoscenze necessaria allo sviluppo del calcio anche in altri continenti. L’anno scorso l’allenatore del Crystal Palace Patrick Vieira, l’unico allenatore nero in Premier League e solamente il decimo nella storia del campionato inglese, si diceva “infastidito” dalla mancanza di allenatori neri nei maggiori campionati europei. A ottobre ha ribadito il concetto, sottolineando la mancanza di un canale di comunicazione tra allenatori neri e dirigenze e amministrazioni dei club europei.
La Premier è il campionato in cui è effettivamente più lampante la discrepanza tra il numero di calciatori e quello di allenatori neri presenti. Un rapporto recente segnala che solo il 4,4% degli allenatori della piramide del calcio professionistico inglese sono neri, a fronte del 43% di calciatori neri in Premier League e del 34% nelle divisioni inferiori. Lo studio rivela anche che solo l’1,6% delle posizioni dirigenziali, di leadership e di proprietà nel calcio è ricoperto da persone nere. I neri sono particolarmente sottorappresentati anche nei settori giovanili e nei dipartimenti di scouting.
L’importanza di sentirsi e vedersi rappresentati
Solo nel 2020 un tecnico africano, il nigeriano Ndubuisi Egbo, ha vinto per la prima volta un campionato europeo riportando il KF Tirana al successo in Albania. L'inversione di tendenza era già palese da qualche anno nel continente africano.
Dal 2016 la Caf Champions League è stata sempre vinta da un tecnico africano e il ct del Marocco Regragui ne è campione in carica. Nel 2018 è stato lanciato il primo corso certificato dalla Confederazione calcistica africana (Caf) per allenatori professionisti. Vi hanno partecipato e si sono diplomati tutti i migliori allenatori africani attualmente in circolazione. Tra loro figurano i due mondialisti Cissé e Regragui e un paio di colleghi molto quotati ma poco conosciuti al di fuori del continente. Si tratta del sudafricano Pitso Mosimane, primo allenatore africano non egiziano ad allenare l’Al Ahly, il club più vincente d’Africa, e del congolese Florent Ibenge, campione in carica della Caf Confederation Cup (l’equivalente dell’Europa League) con i marocchini del RS Berkane.
Anche le ultime due edizioni di Coppa d’Africa sono state vinte da ct africani: a trionfare sono stati prima Djamel Belmadi con l'Algeria, poi proprio Cissé col Senegal. Inoltre, il numero di tecnici africani presenti in Coppa d’Africa è aumentato drasticamente negli ultimi sette anni. In sole quattro edizioni, la percentuale è passata dal 18,75% al 66,66%. Nell’edizione 2021 erano 16 su 24.
Il vincitore, Cissé, è stato il primo ct africano a ricevere fiducia incondizionata. Il primo intorno a cui una federazione ha costruito un progetto a lungo termine. È in carica dal 2015 e alla guida dei Leoni della Teranga ha messo insieme una finale e un trionfo in Coppa d’Africa e due qualificazioni consecutive ai Mondiali, offrendo solidità a una nazionale piena di potenziale ma storicamente poco concreta. La bontà del lavoro del ct senegalese ha avuto ripercussioni positive anche fuori dai confini del proprio paese. La sua parabola ha spinto molte altre federazioni, anche quelle meno attrezzate in termini di formazione, a puntare su allenatori autoctoni.
Così come talenti della caratura intellettuale di Yaya Touré, cervello del Manchester City di Roberto Mancini e della Costa d’Avorio qualificatasi per la prima volta a un Mondiale nel 2006, hanno contribuito a cambiare la percezione del calciatore africano, allo stesso modo risultati come quelli di Cissé hanno aiutato a conferire maggiore credibilità ai tecnici del continente. I suoi successi hanno reso ancor più evidente come solo dando opportunità alle persone queste possano maturare. Come solo attraverso una reale opportunità sia possibile acquisire l'esperienza necessaria per raggiungere gli obiettivi. I risultati raggiunti fanno poi il resto: innalzano l’autorevolezza del tecnico che li ha ottenuti, convincendo i dirigenti a dare nuove opportunità e ad alimentare un processo che in futuro potrà portare a equiparare gli allenatori africani ai loro colleghi occidentali.
Bellissimo post. Metti in evidenza quello che ancora manca in tanti pezzi della società, africana e non: cioè la possibilità di sentirsi e vedersi rappresentati.
E questo lo si fa soprattutto grazie al potere delle parole di rendere visibili cose e persone, di continuare a raccontare. E poi di dare voce, lasciare spazio a chi non ha mai potuto prenderselo, quello spazio.
Grazie Alex per questo post molto interessante, ricco di dati e riferimenti su un argomento molto importante. L'emancipazione e l'autodeterminazione sono valori fondamentali per lo sviluppo di una cultura calcistica vincente e sostenibile. La bravura e la tenacia di tecnici come Cissé, Ibenge e Mosimane (e tanti altri) sono da Premio Nobel del football.